Focus 1 – Servizi pubblici e scuola digitale

Un focus settoriale inserito all’interno dell’articolo più ampio “Prima di domani. Chiediamoci cosa vogliamo veramente

Possiamo dire che, ogni processo di cambiamento può essere favorito da incentivi “soft” (pressione sociale, domanda, spinta gentile) o “hard” (incentivi economici, premi, bisogno urgente). In questo senso, il distanziamento sociale imposto dall’emergenza sanitaria Covid-19 ha rappresentato sicuramente un incentivo “hard”, di portata tale da richiedere l’abbattimento significativo del digital divide nel nostro paese nell’arco di 1 mese. Un digital divide che, a ben vedere, se da un lato è sicuramente originato dai problemi dell’accessibilità e dell’inclusione, dall’altro possiamo inventariarlo nella categoria della resistenza culturale più che in quella dell’effettiva competenza digitale.

Questo elemento è emerso vividamente in entrambe le conversazioni che abbiamo avuto con Roberta Cocco, Ass.re alla trasformazione digitale del Comune di Milano e con Marco De Rossi, founder della piattaforma Weschool e partner dell’iniziativa www.lascuolacontinua.it, la community che permette a scuole, dirigenti e docenti di contare su un supporto unico che li aiuti nell’adozione di piattaforme gratuite per creare classi digitali, condividere contenuti, verificare l’apprendimento e fare videolezioni a distanza.

Sul fronte della didattica digitale, Marco ci conferma che gli utenti quotidiani attivi sulle classi digitali di WeSchool infatti, sono passati dalle 150-200mila unità, a 1,1 milioni di utenti, un quarto della popolazione studentesca della scuola secondaria italiana (medie e superiori). Dato scontato, visto che le scuole sono chiuse; quello che è meno scontato è che fatto cento dei docenti che oggi utilizzano la piattaforma, il 20% sono skillati e usavano già prima gli strumenti digitali con una certa ricorrenza; il 40% lo facevano solo saltuariamente, ma il 40% restante è rappresentato da coloro che erano contrari allo stesso principio di didattica online e che oggi riscontrano, ovviamente, le maggiori difficoltà. E nonostante il Piano Nazionale della Scuola Digitale risalga al 2015, di fatto non sono mai stati utilizzati dallo Stato incentivi “hard” per indirizzare la classe docente all’utilizzo di strumenti e metodologie per la didattica online, con conseguenze che oggi vengono al pettine. Un tema ancora una volta culturale e di competenze, più che un tema di “infrastruttura” quindi. Un tema di policy design o forse di relazioni sindacali cristallizzate al ‘900? – ci chiediamo noi.

Quello che “il sistema” non ha fatto nell’incentivare il cambiamento, lo avrà fatto però la domanda – quella dei genitori che, dopo le prime settimane di scuole chiuse, hanno esercitato pressione sociale sui docenti affinchè si attivassero da remoto – e quello che sarà ormai diventato un’abitudine: secondo De Rossi spariranno le dirette, così come la parte di verifica dell’apprendimento che tornerà ad essere fisica, ma diventerà la norma avere un ambiente digitale dove, a prescindere da quello che avviene in classe, vengono inseriti materiali di supporto od extra, intorno ai quali si può sviluppare un’interazione.

Ma il digitale non è tutto. La vita in casa propone tre sfide: 1 – il ruolo della famiglia come prima comunità educativa (e chi forma la famiglia a questo compito?); 2 – l’apprendimento esperienziale come strumento (non è un caso che “fate una torta” o “provate, se potete, a sperimentare un piccolo orto in casa” siano proposte arrivate direttamente dalla scuola ai genitori); 3 – la distinzione tra nozione e competenza, dove la prima è facilmente digitalizzabile mentre la seconda è più fortemente legata all’incontro umano e sociale. Sfide su cui sapevamo già di doverci concentrare e che indicano una prospettiva per nuovi modelli di apprendimento, che riguardino approcci “project based learning”, di apprendimento collaborativo, guardando non solo all’istruzione primaria e secondaria ma anche a quella universitaria e alla formazione in generale. Le comunità di apprendimento, la relazione internazionale (se non è possibile proprio la mobilità) e la componente esperienziale come alcuni degli strumenti in grado di innovare i sistemi formativi tradizionali per fare in modo che possano produrre cittadini, professionisti, conoscenza e sapere in linea con le sfide economiche globali, come abbiamo provato a fare in questa esperienza con Erasmus+.

Anche sul fronte dei servizi pubblici digitali, ovviamente l’effetto shock quarantena ha avuto i suoi prevedibili impatti: al Comune di Milano i certificati online richiesti nei primi 25 giorni di marzo sono stati l’81,1% a fronte del 67,7 del mese precedente: di necessità, virtù. Ciò che risulta meno scontato – ci racconta l’Assessora Roberta Cocco – è la capacità di reazione e di risposta dell’amministrazione comunale all’emergenza Covid-19 grazie alla presenza di una solida infrastruttura informatica su cui è stato investito molto negli anni precedenti. A pochi giorni dalla creazione della “zona rossa” infatti, il Comune è riuscito a mettere in “smartworking” ben 5200 dipendenti su 15.000 (al netto delle funzioni non remotizzabili, come insegnanti, vigili, operatori ecologici etc.), quindi la quasi totalità delle funzioni amministrative. Una grandissima operazione consentita dagli strumenti digitali e di sicurezza informatica esistenti e da un gran lavoro organizzativo svolto dall’assessorato della Tajani. Così come, grazie al sistema di customer service già esistente, motore di comunicazione nei confronti dei cittadini il cui perno è l’infoline 020202, il servizio è stato potenziato con linee apposite e operatori telefonici in grado di rispondere alle domande sull’emergenza.

Tra i nuovi servizi messi in piedi dall’amministrazione meneghina, frutto della collaborazione tra vari assessorati, anche la piattaforma Milano Aiuta – Guida ai centri d’aiuto per persone bisognose e la Mappa Georeferenziata che permette a tutti i cittadini milanesi di conoscere le piccole attività commerciali dei propri quartieri che vendono prodotti di prima necessità ed effettuano consegne a domicilio.

Su quest’ultimo punto vorremmo soffermarci, riflettendo sulla funzione abilitante del soggetto pubblico nel favorire strumenti di promozione del tessuto del commercio di vicinato – già provato prima del Covid dagli effetti della grande distribuzione – adottando una logica di piattaforma che, se implementata in futuro su infrastrutture proprietarie pubbliche e dotata di ulteriori funzionalità come e-commerce, consegna a domicilio gratuita per fasce di popolazione fragili e un’interfaccia usabile all’altezza del mercato (ossia delle app che siamo solitamente abituati ad utilizzare) potrebbe consentire la valorizzazione e la rinascita economica di questi piccoli esercizi, in modo competitivo: la nostra “Amazon di vicinato”. E ancora, se vogliamo usare le lenti dell’innovazione sociale che ci spinge ad ibridare i contesti e collegare i puntini, si potrebbe vincolare l’utilizzo dei buoni spesa governativi, presto in arrivo, a sostegno del commercio di vicinato, continuando ad alimentare questo circolo virtuoso senza paura, come Stato, di “prendere una posizione”? L’amministrazione può essere intermediario, “validatore” e garante del rispetto di regole (di tetti di prezzo ad esempio) che essa stessa può definire, ma non tradizionalmente come arbitro, quanto proprio in virtù del suo essere imprenditore del “servizio di piattaforma” che mette a disposizione. Anche in questo caso, Covid non fa altro che alzare il velo di limiti vero ma anche di possibilità di cui, a ben guardare, già eravamo a conoscenza. 

E’ ancora più giustificato dunque oggi chiedere a gran voce che il pubblico eserciti il ruolo attivo di player, che agisce nel mercato privato ma con l’etica del pubblico; che si assuma le prerogative della ownership con responsabilità e visione politica (individuando poi quali siano i modelli di gestione migliori, senza voler scendere qui in tecnicismi). Un ruolo attivo per “fare” e sperimentare, non solo per regolare e sanzionare, specializzandosi, nell’attivare nuove forme di mutualismo, facendosi promotore e garante di forme di “platform cooperativism” per rispondere ai bisogni di tutela sulla salute e sul lavoro per tutte le categorie che non le hanno o non sono in condizioni di contrattare da sole (sulla fattibilità di questo modello stiamo studiando, insieme a OpenGroup, Nomisma e Fondazione Innovazione Urbana, sul bando FIS della Presidenza del Consiglio dei Ministri); o ancora, come a Barcellona, possa diventare stato imprenditore per accompagnare i grandi cambiamenti che si vogliono realizzare, come democratizzare la transizione energetica creando una nuova impresa pubblica per la produzione di energia solare, che oggi serve tutti gli edifici municipali e (con un pilota) 20.000 case private, mettendo al centro l’interesse pubblico e quello dei cittadini.

RISORSE SU QUESTO TEMA

Dalla nostra esperienza:

Da RENA:

  • Diretta facebook, domenica 5 Aprile, “La scuola inclusiva” – Didattica a distanza prima e dopo l’emergenza, con i protagonisti del cambiamento.

Dall’ Archivio di fonti / Osservatorio Emergenza – Fondazione Innovazione Urbana:

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