Proposta – Policentrismo, valore e tecnologia

Pensare la città, oltre la città

L’approccio che come LAMA utilizziamo da sempre per dare valore ai nostri progetti è quello di ragionare su tre elementi: spazi, comunità e servizi; e su come dalla loro intersezione si definiscano identità, appartenenza e interazioni. Il contesto attuale ci suggerisce di aggiornare il modello pensando ai plug-in che lo possano rendere resiliente e ripensare alle funzioni/servizi insieme ad un concetto di distanza e di vivibilità, intesa anche come benessere. Quindi, ripensando la città, dobbiamo secondo noi ragionare sul tema del policentrismo, della creazione di valore e della tecnologia.

Se le città ripartissero come prima, uno dei modi in cui recuperare economie ai tempi del distanziamento potrebbe essere quello di fare leva sul prezzo: i servizi erogati a meno persone devono costare di più per essere sostenibili economicamente. Ovvio che questo non sia uno scenario nè desiderabile nè praticabile, per le gravi conseguenze sociali che genererebbe inasprendo ulteriormente le diseguaglianze.. 

La prospettiva invece a cui dobbiamo guardare per riprogettare le città, in modo diverso da prima, è quella di uno sviluppo policentrico (interessantissima la suggestione di Paris 15-minutes city), capace di costruire nuove funzioni e orizzonti di significato per luoghi meno centrali, ripensando i quartieri e le periferie e riabitando le aree interne, ripopolandole non solo di persone, ma delle funzioni e infrastrutture di cui sono state via via private, rendendole meno vivibili. Uno sviluppo che riempia i vuoti, che se ne riappropri, che li rigeneri creando un nuovo valore, locale, di prossimità, sociale, relazionale, collettivo. 

Ma non basta spostare i servizi decentrandoli: per realizzare questa trasformazione, questi hanno bisogno di essere sostenibili economicamente e addizionati di valore aggiunto. Ridare valore allo scambio economico attraverso la creazione di circuiti di moneta complementare, ad esempio, che intensificano le relazioni economiche e sociali all’interno di un circuito territoriale, creando legami identitari, premessa per la creazione di comunità che comincino ad immaginare soluzioni condivise per rispondere ai propri bisogni (gruppi di acquisto per l’energia, trasporti dell’ultimo miglio, cura della famiglia e dei beni comuni etc.). Molte realtà oggi fanno fatica a sopravvivere nella pura economia di mercato, se invece spostiamo l’idea di generazione di valore su altri elementi, come il valore relazionale e comunitario, questi luoghi possono riacquisire una funzione centrale, e forse in questo modo riusciamo a creare una nuova sostenibilità urbana diffusa. E pensiamo poi alla potente funzione che le tecnologie possono avere nell’aumentare le capacità di questo agire collettivo da un lato; e facilitare l’accesso e la gestione di spazi, favorendo autonomia di fruizione, sicurezza e finanche monitorando la salubrità dei luoghi. 

Qui torna in ballo la smart city cooperativa di Sennett, cui facevamo riferimento nell’introduzione. Secondo l’autore esistono due modi di applicare la tecnologia nell’attività urbanistica. Un modo “prescrittivo”, che mira solamente a ipersemplificare la vita dei cittadini e a prevenire ogni imprevisto o frizione possibile, a costo di rendere però omologata e controllata dall’esterno la vita sociale; e una smart city “cooperativa”, pensata invece per facilitare il confronto tra i cittadini, mantenendo tutto il potenziale di creatività e di generatività legato all’incontro con il non noto e con il diverso da sé. 

Oggi ci possiamo addirittura spingere oltre: le città vanno verso “self-managed assets”: trasporto senza conducente, edifici che si monitorano da soli, etc… non sono pochi a parlare di “self-sovereign assets”, ossia di contesti dove assets civici come strade, alberi, edifici sono appunto sovereign entities. Ma se questo è il futuro, di chi è la proprietà, e quindi la responsabilità? è un invito a modelli post-ownership?

Se le nuove tecnologie ci dicono che possiamo creare modelli di business ‘tanti a tanti’, possono anche disegnare nuove forme di investimento, regolazione, contrattualizzazione, governance che trasformano i tanti hub in shared civic assets, di valore condiviso e redistribuito. 

Un affaccio su questo futuro lo descrive visionariamente Dark Matter Labs, il team multidisciplinare fondato da Indy Johar che studia e disegna le grandi trasformazioni sociali, in “A Smart Commons. A New Model for Investing in the Commons”, in cui si indagano proprio le interrelazioni tra tecnologia, dati e regolamentazione, a partire da un focus sullo sviluppo immobiliare (e le sue estreme conseguenze) intorno alla High Line di New York e arrivando a definire i drivers di un nuovo modello di sviluppo urbano comunitario costruito su 4 pilastri: 

  1. Contratti intelligenti e atti di proprietà digitale: un contratto intelligente collegato a un atto di proprietà digitale, che può distribuire automaticamente il rialzo del valore tra due parti.
  2. Valutazione della proprietà: un’ API che accede automaticamente al data set esistente del valore della proprietà di New York, aumenta il valore calcolato al di sopra dell’inflazione di fondo e collega questi dati a un modello spaziale digitale.
  3. Piattaforma di investimento: sviluppo dell’esperienza utente per una piattaforma di investimento di vicinato per i residenti che possono così proporre collettivamente, votare e contribuire al finanziamento di progetti di infrastrutture locali
  4. Una nuova interfaccia democratica: affinché questo sia socialmente legittimo, dovremo progettare nuovi modi di prendere decisioni e modelli di investimento locali.

Possiamo dire che la strada da compiere per arrivare all’implementazione di un modello del genere sia molto lunga, ma il percorso per arrivarci apre ad una prateria di opportunità praticabili e prototipabili, proprio a partire da sperimentazioni di “policentrismo addizionato”, a cui abbiamo fatto riferimento.

Piani per la ricostruzione:

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